venerdì 19 dicembre 2014

Thousand Pieces of Gold / The Ballad of Little Jo

Continuando sul sentiero di Meek's Cutoff segnaliamo altre due interessanti pellicole dei primi anni 90 caratterizzate da uno sguardo femminile dietro la cinepresa.



1991 THOUSAND PIECES OF GOLD
di Nancy Kelly con Rosalind Chao, Chris Cooper, Michael Paul Chan, Dennis Dun, Beth Broderick

Figlia di una poverissima famiglia di contadini cinesi la bella Lalu viene data in moglie ad un connazionale immigrato in California. Ma giunta in America la poveretta scopre di essere stata invece venduta come prostituta da saloon in un paesino di minatori. Dovrà lottare per riscattare la propria libertà e mantenere la propria dignità. Alla fine un commerciante e scapolone bianco si innamorerà di lui e la sposerà. 
Ispirato a un omonimo romanzo di Ruthanne Lum McCunn e bastato sulla vera (e pare molto più prosaica) vita di Polly Bemis, oggi considerata una sorta di eroina del femminismo americano delle origini.

A dispetto di quel che si potrebbe immaginare dalla trama è un sobrio e persino raffinato film-tv, che evita sia le trappole del più facile melodramma romantico che quelle del parabola platealmente edificante. La storia è quella di un'affermazione di dignità e di una duplice crescita umana. Molto americana la parabola della protagonista, che partendo dalla condizione più sventurata conquista un'indipendenza e una dignità che le sarebbero state probabilmente negate nella terra natia. Più sfumata quella del protagonista maschile, che deve superare parecchi tabù sociali e personali, prima di accettare di essersi innamorato di una cinese.
Gran merito della riuscita del tutto va alla classe dei due attori protagonisti, due ottimi caratteristi raramente messi così in primo piano. Ad una prevedibilmente molto coinvolta Rosalind Chao fa da spalla il solitamente "cattivo" Chris Cooper, il cui aspetto massiccio e vagamente minaccioso è probabilmente uno dei motivi per cui la storia non scivola mai nel melenso.



I limiti sono quelli dell'autocensura televisiva che, se non edulcora troppo lo squallido scenario in cui la protagonista si trova a vivere, non può e non vuole spingersi troppo in là nella descrizione di quella che comunque resta una storia di prostituzione e schiavismo. Appare un po' troppo facile ad esempio il modo in cui la protagonista evita di "esercitare il mestiere": difficile credere che i minatori di un paesino dell'800 fossero in larga parte tutti così comprensivi e di buon cuore. Comunque il lieto fine personale viene adeguatamente inquinato da un finale molto amaro a livello sociale, con i protagonisti costretti a fuggire dal paese dove si è scatenato un folle linciaggio dei cinesi.

Nonostante tempi e luoghi siano quelli canonici, c'è davvero poca aria western. La distanza dal genere la si misura subito con il prologo ambientato addirittura in Cina, mentre il resto del film mette in scena un'ambientazione mineraria più alla London che da classico western.



1993 THE BALLAD OF LITTLE JO
di Maggie Greenwald con Suzy Amis, Bo Hopkins, Ian McKellen, David Chung, Heather Graham, René Auberjonois, Carrie Snodgress, Melissa Leo

Si racconta la storia incredibilmente vera di "Jo" Monaghan, un rispettato piccolo ranchero dell'Oregon che solo dopo la morte, avvenuta per cause naturali nel 1904, si scoprì essere una donna (Josephine). Nella realtà le motivazioni pare fossero principlamente economiche, quella di una donna in cerca di lavoro per sfuggire alla miseria che l'aveva costretta a far internare il suo unico figlio in un manicomio, nel film decide invece di vestirsi da uomo perché traumatizzata da un tentativo di stupro.



Storia interessante, confezione curata e rigorosa, ma a differenza del film precedente "The Ballad of Little Jo" soffre di un eccesso di realismo che finisce quasi per soffocare la narrazione. Quella raccontata è forse una storia troppo particolare per rappresentare qualcosa di diverso dal caso in sé o comunque gli autori non riescono ad andare oltre alla mera esposizione dei fatti.

In netto contrasto con la maggioranzai dei film che mettono al centro della storia delle cowgirl, in genere maschiacci che sanno farsi valere in un mondo di uomini, qui per tutto il tempo non vediamo altro che una poveretta infagottata nel suo travestimento, traumatizzata e autolesionista (si sfregia da sola), costretta per tutta la vita a negare la propria femminilità in un universo maschile in cui tutti gli uomini che la avvicinano, indipendentemente dalle intenzioni e amici o nemici che siano, finiscono per rivelare un'indole aggressiva e invasiva. L'unica nota di sollievo e unica concessione a un minimo di romanticismo è la pudica e segreta storia d'amore che la protagonista vive con un servo cinese, non a caso l'unico maschio del film non aggressivo (anzi decisamente passivo), mostrato a livello visivo con caratteristiche per l'epoca femminili, come i capelli lunghissimi e un forte senso dell'igiene.

Anche qui il western lo si prende piuttosto alla lontana, nonostante i costumi e ambientazione siano più canonici. L'unica sparatoria (e unica volta in cui la protagonista reagisce) è spoglia e totalmente priva di qualsiasi catarsi, a conferma del rigore anti-spettacolare persino eccessivo con cui la storia è raccontata.
Un tocco di classe il crudele e morboso finale: la protagonista viene trovata morta e la società misogina che la assediava può entrare nella sua intimità, svelare il suo segreto e disporre del suo corpo.

Lo stringente realismo della narrazione rende a tratti stridente la scelta come attrice protagonista di Suzy Amis, troppo bella per essere credibile nella parte di una donna che tutti credono un uomo, ma comunque abbastanza brava e intensa per far digerire il più delle volte la forzatura. Ottimo anche il resto del cast.

mercoledì 17 dicembre 2014

Meek's Cutoff



2010 MEEK’S CUTOFF
di Kelly Reichardt, con Michelle Williams, Rod Rondeaux, Bruce Greenwood, Will Patton, Shirley Henderson, Paul Dano, Zoe Kazan, Neal Huff, Tommy Nelson

Il film è ambientato lunga la famosa Oregon Trail e Meek's Cutoff è il nome della scorciatoia attraverso la quale nel 1845 la guida Stephen Meek condusse duecento carri e circa mille persone a perdersi nel bel mezzo del deserto dell’Oregon, da cui non tutti riuscirono ad uscire, episodio storico che ha ispirato il film della Reichardt, con la differenza che nel suo film i carri sono solamente tre e gli attori in scena sono nove contati.

Presentato anche al Festival di Venezia del 2010, è un piccolo western davvero atipico e fuori dagli schemi, diretto verosimilmente con un budget ridotto all’osso e in controtendenza sia rispetto al genere che a tutto il cinema contemporaneo: lentissimo e con pochissimi dialoghi, senza un morto e una singola scena di violenza. Un western esistenzialista e quasi herzoghiano, fatto soprattutto di silenzi e spazi vuoti, senza “paesaggismi” e tramonti alla Malick, ma con la raffigurazione di una natura arida, selvaggia e insensibile. Nonostante non succeda praticamente niente il film riesce a non annoiare e con il suo tono scarno, essenziale e minimalista trasmette un’idea del west più concreata e reale di molte altre viste al cinema. Il finale aperto contiene tutta una metafora sull’esistenza, vista come un lungo sentiero in cui si procede a casaccio senza punti di riferimento sperando di arrivare a qualcosa ma che verosimilmente non conduce verso nulla.
(Mauro Mihich)



Affrontando per la prima volta un film in costume e di genere, per quanto preso molto alla lontana, la regista Kelly Reichardt non tradisce il suo cinema ultra-indipendente e minimalista. È anzi ad oggi il suo film più riuscito, almeno insieme al bellissimo e toccante (e sempre delittuosamente inedito in Italia) Wendy e Lucy del 2008, che vede come protagonista ancora Michelle Williams. Attrice che diventata famosa per la serie "Dawson's Creek" è poi riuscita a costruirsi un'intelligente e ragionata carriera cinematografia, come raramente riescono a fare gli attori diventati noti grazie alla televisione. Per gli standard del cinema indipendente è un film quasi all star, considerato che presenta altre facce molto conosciute, se non proprio famose, come Paul Dano, Bruce Greenwood e Will Patton.

Ruba la scena a tutti però lo sconosciuto Rod Rondeaux, nella parte di un enigmatico indiano che i pionieri catturano e obbligano a fare da guida. Faccia davvero poco convenzionale, recitazione straniante (del resto Rondeaux è prima di tutto uno stuntman) il suo è uno degli indiani più autenticamente "alieni" mai visti sullo schermo. A differenza dello stereotipo è un gran chiaccherone, ma né i personaggi né gli spettatori possono o riescono a cogliere il senso di quello che dice. Raramente è stata visualizzata con tanta potenza lo sgomento e l'incomunicabilità che i veri pionieri dovevano provare quando incontravano un indiano.



Il fulcro del film è la contrapposizione tra una donna e un universo maschile, con il personaggio di Michelle Williams che porta nel film un punto di vista femminile positivo, la cui apertura e disponibilità entrano in conflitto con lo sguardo contaminato dalla diffidenza e dal desiderio di possesso degli uomini. Il tutto senza però facili generalizzazioni. Se il polo opposto della protagonista è il cialtrone e violento Meek (e in questo senso ogni tanto il personaggio rischia di trasformarsi in caricatura: l'unico vero limite del film), gli altri uomini della caravona si rivelano molto più ragionevoli e sensibili, a cominciare dal saggio e anziano marito della Williams, mentre chi più alimenta la paranoia e la tensione è proprio una delle altre donne, la più spaventata e fragile. La stessa figura dell'indiano, per quanto positiva, non è quella del banale Buon Selvaggio, ma conserva una dose di inquietante ambiguità.

Intelligente e in controtendenza anche l'idea di trovare il realismo più attraverso il tono  prosciugato della narrazione e delle immagini che non con una certosina ricostruzione storica, anzi costumi e carri sembrano e probabilmente sono semplici costumi e oggetti da parata e sagra di paese. Il che da vita ad un West spogliato da ogni traccia di colore e mito, ma comunque di grande e rarefatto fascino.



Minuscolo e prezioso gioiellino cinematografico, forse uno dei più interessanti titoli del decennio in corso anche al di fuori del genere, probabilmente ad oggi il miglior dei per altro rarissimi western diretti da una regista donna. Non a caso, nonostante la distribuzione limitata, sembra essere diventato un piccolo cult movie citato da più parti.

mercoledì 10 dicembre 2014

La banda di Jesse James



1972 LA BANDA DI JESSE JAMES (The Great Northfield Minnesota Raid)
di Philip Kaufman con Cliff Robertson, Robert Duvall, Luke Askew, R.G. Armstrong, Dana Elcar, Donald Moffat, John Pearce, Matt Clark, Wayne Sutherlin, Robert H. Harris, Elisha Cook Jr.

E chi se lo ricorda più Philip Kaufman? Del resto è solo una delle tante personalità dimenticate - appunto - del cinema americano pre-anni 80. Svantaggiato in particolare dal non aver mai legato, da regista, il suo nome ad un film realmente famoso, ma tutt'al più a qualche cult movie piuttosto di nicchia. C'è il rischio che il suo film più noto sia oggi uno dei suoi peggiori, "Sol levante", mentre è quasi una certezza che l'ormai brevissima memoria degli appassionati di cinema odierni leghi il suo nome più al primo film di Indiana Jones, di cui fu sceneggiatore, che alla sua carriera di regista. Che pure per vent'anni fu interessante e notevole. C'è da dire che anche lui ci ha messo del suo per farsi dimenticare, dirigendo titoli indifendibili come "Henry e June", il già citato "Sol levante" (che a dire il vero ha una prima parte molto interessante, prima di svaccare indecorosamente) o, quasi peggio, pellicole assolutamente anonime come "La tela dell'assassino".

Ma le prime due decadi di carriera furono ben altra storia. Dai due film indipendenti degli anni 60 influenzati dalle sperimentazioni della nouvelle vague Goldstein e Fearless Frank (esordio al cinema di Jon Voigt), alle cinque pellicole decisamente "New Hollywood" dirette tra il  '72 e '83: La banda di Jesse James oggetto di questo post, lo sfortunato apologo polare e satirico The White Dawn, il sottovalutato remake (che in realtà racconta tutta un'altra storia) de "L'invasione degli ultracorpi" Terrore dallo spazio profondo, il sovreccitato action teppistico The Wanderers e la bellissima elegia dei collaudatori di aerei Uomini veri.

Nel 1978 doveva dirigere anche Il texano dagli occhi di ghiaccio con Clint Eastwood, ma venne licenziato e sostituito dopo due settimane dall'ingombrante attore/regista. Se l'idea di Kaufman era di girare qualcosa di simile al suo western precedente, non viene difficile immaginare i motivi dello scontro tra i due autori.



Tra i tanti e forse troppi film dedicati al discutibile mito di Jesse James e della sua banda, La banda di Jesse James / The Great Northfield Minnesota Raid ne propone indiscutibilmente la versione più eccentrica. A cominciare dalla scelta di mettere al centro del film non i due fratelli James, ridotti praticamente a comprimari, ma piuttosto i loro complici, in particolare il Cole Younger interpretato da un intenso Cliff Robertson. Originale anche l'idea di concentrare la narrazione solo sulla disastrosa rapina alla banca di Northfield, che mise fine alle attività criminali della banda. Seguiamo quindi lo svagato viaggio della banda verso la cittadina, la loro permanenza e infiltrazione tra la popolazione, le allucinate sequenze della rapina e della fuga.

Kaufman sceglie un taglio grottesco e impressionista, ancora debitore del cinema francese, destrutturando il racconto con uno stile divagante e libero, che narrativamente preferisce i tempi morti e sembra procedere per libere associazioni, variando continuamente tono e atmosfere. Si passa ad esempio dai titoli di testa, che raccontano l'epopea dei James con la tecnica e la retorica roboante dei film classici, alla prima vera sequenza del film, in cui i due James discutono mentre cagano in una latrina, pulendosi il culo con i giornali che parlano di loro. Ma il film non procede per accostamenti sempre così didascalici, è anzi pieno di visioni e simboli misteriosi (Younger che continua a sognare degli enigmatici visi femminili), schegge improvvise di poesia (una prostituta che canta in un bordello una triste nenia slava), atmosfere surreali (il clima onirico nel bordello o in casa di una vecchietta in cui trova rifugio la banda) e trovate stranianti in un contesto western (come una rissosa partita di baseball agli albori). Sì passa dal comico al tragico anche all'interno della stessa sequenza, come quando dopo la rapina dei probi cittadini in cerca di giustizia impiccano quattro poveracci a caso sorpresi in un bordello.



Di grande effetto le esplosioni di violenza, debitrici tanto della secca durezza di un Arthur Penn quanto della caoticità di un Peckinpah (da notare che ben quattro attori del cast - Luke Askew, Matt Clark, Elisha Cook Jr., R. G. Armstrong - li si ritroverà l'anno dopo in Pat Garrett e Billy The Kid). Il pezzo di maggior effetto è ovviamente quello caotico, buffo e sanguinoso della rapina, ma lasciano il segno anche la strage iniziale davanti ad un bordello e la fulminea sequenza della cattura dei protagonisti.

Notevole l'intuizione di visualizzare la cittadina di Northfield come un simbolo di quel sviluppo meccanico e borghese che preannunciava la modernità e il grigiore del 900, in netto contrasto con il sud arcaico e contadino da cui proviene la banda dei James, dove ancora si aggirano streghe e gli uomini danno retta alle superstizioni: non a caso il Jesse James interpretato da un invasato Robert Duvall ha molto dei predicatori visionari (e cialtroni). Genialoide in particolare l'uso di un organetto a vapore, che casualmente durante la rapina diventa un precursore degli allarmi elettronici moderni. Il film destabilizza infatti anche da un punto di vista sonoro con una colonna sonora che mette insieme tradizione americana e europea, suggestioni psichedeliche e sonorità a tratti più da poliziesco moderno che da western.

Anche la recitazione è sovraccarica e sempre al limite, ma affidata ad un cast stratosferico, tanto per quanto riguarda gli attori di primo piano (ma è davero esistito un tempo in cui attori come Robertson e Duvall erano considerati di richiamo?) che le facce secondarie, una valanga di faccioni appartenenti ai migliori caratteristi di quegli anni.



Descritta l'originalità dell'approccio di Kaufman alla materia narrativa, va comunque sottolineato che l'atmosfera del film vuole e riesce a restare comunque all'interno del genere. Pur concedendo molto poco alle aspettative del pubblico è lo stesso un film che costruisce una sua stramba spettacolarità. Quella di un'opera che usa la ricerca di una messa in scena realistica per trovare la deformazione satirica, riuscendo a evocare  quelle atmosfere sature, vivide e allusive, che solo certo cinema americano degli anni 70 sembra aver avuto il potere di mettere su pellicola con tanta intensità.

domenica 7 dicembre 2014

The Tracker [1988]



1988 RICERCATO VIVO O MORTO (The Tracker / Dead or Alive)
di John Guillermin con Kris Kristofferson, Scott Wilson, Mark Moses, David Huddleston, John Quade, Don Swayze, Geoffrey Blake, Leon Rippy, Ernie Lively, Karen Kopins, Celia Xavier, Jennifer Snyder

Cupo e violento tv movie decisamente da recuperare.

Quattro balordi, tra cui uno squilibrato con manie religiose (Wilson), lasciano dietro di sé una lunga scia di sangue. Quando rapiscono una ragazza e una bambina, un anziano sceriffo chiede aiuto ad un ex-cercatore di tracce (Kristofferson). Nella caccia all'uomo li seguirà anche il figlio di quest'ultimo un avvocato appena tornato dall'est. Sarà un'ecatombe.  

La storia d'inseguimento e i personaggi sono tipici di molti western prodotti dalla tv americana negli ultimi trent'anni, in genere incentrati sul recupero di attori in là con gli anni e vecchie glorie sul viale del tramonto. Molto meno tipica la  cupezza del tono. A parte qualche dettaglio sanguinario (la banda di assassini lascia messaggi sui muri scritti con il sangue stile famiglia Manson), le scene di violenza sono risolte in modo asciutto e fuori campo, come nei film degli anni cinquanta, ma comunque la dose di nefandezze lasciate alla fantasia del pubblico è decisamente atipica per la tv dell'epoca, con un corollario di sgozzamenti, stupri e omicidi a sangue freddo che lascia decisamente il segno.



La trama e l'interazione tra i personaggi sono convenzionali e ampiamente prevedibili, ma è lo stesso notevole la messa in scena di un west spietato e senza giustizia, dove il Male pare essere di casa, gli innocenti subiscono di tutto e il minimo barlume di umanità contro il nemico può avere conseguenze tragiche.
La cruda parabola del film è vista dal punto di vista del giovane avvocato. Inizialmente sconcertato e incapace di adeguarsi ai metodi brutali che vede applicati dal padre, dovrà suo malgrado e a caro prezzo imparare la spietata lezione. Come in un certo cinema del decennio precedente, il film è attraversato da un interrogativo morale che continua a riproporsi in varie situazioni: i confini in cui può essere lecito e giustificato un omicidio a sangue freddo. L'amarissimo finale lascia protagonisti e spettatori con più dubbi che risposte.

Va da sé che Kristofferson nella parte del cercatore di piste è monumentale, una sorta di Clint Eastwood più malinconico e umano. Memorabile la sequenza in cui deve fare strage di una banda di cacciatore di taglie senza lasciare sopravvissuti. Nella parte dell'invasato capo degli assassini, un cattivo davvero inquietante e odioso, c'è invece Scott Wilson, un attore la cui carriera a cavallo degli anni 60 e 70 sembrava lanciatissima in ruoli di primo piano ("A sangue freddo", "Grissom gang", "Ardenne '44", "I temerari"), per poi essere progressivamente dimenticato, almeno fino ad oggi, visto che fa parte del cast della fortunatissima serie "Walking Dead". A far da contorno i familiari e mitologici faccioni di caratteristi enormi  (in tutti i sensi) come David Huddleston e John Quade. Un po' schiacciato dal confronto con i colleghi se la cava dignitosamente, nel ruolo del figlio di Kristofferson, Mark Moses, faccia frequente nei primi film di Oliver Stone.



È l'ultima regia della carriera del prolifico John Guillermin (oggi quasi novantenne), tuttofare del cinema che resterà negli annali per due film appartenenti più ai produttori che al regista: il classico catastrofico "L'inferno di cristallo" e  il famigerato remake di "King Kong" degli anni 70 con Jeff Bridges e Jessica Lange. Gli appassionati di western invece lo possono ricordare per il divertente El Condor. Non proprio un fulmine di guerra dunque. E infatti anche nel caso di quest'ultima opera la sua regia non ha particolari guizzi, limitandosi ad una narrazione corretta e anonima. Ma comunque nel respiro delle inquadrature si nota l'occhio del regista abituato all'ampiezza dello schermo cinematografico, piuttosto che alle ristrettezze televisive. D'altra parte il tutto è girato in spettacolari scenari naturali, tra cui la Monument Valley, non le classiche e spoglie location californiane di molti western a basso budget.

Da segnalare anche l'originale colonna sonora, fatta con tocchi di moderata elettronica, che invece di risultare fastidiosamente anacronistica, come altri tentativi simili, si amalgama bene col clima duro del racconto e contribuisce a far lievitare la tensione.

giovedì 4 dicembre 2014

Harry Tracy, un fuorilegge speciale



1982 HARRY TRACY, UN FUORILEGGE SPECIALE (Harry Tracy / Harry Tracy Desperado / Harry Tracy: The Last of the Wild Bunch)
di William A. Graham. Con Bruce Dern) di William A. Graham. Con Bruce Dern, Helen Shaver, Michael C. Gwynne, Gordon Lightfoot, Jacques Hubert

Un altro interessante western crepuscolare del 1982 da riscoprire. Anche questa una produzione canadese, che deve avere avuto qualche problema di distribuzione a giudicare dai molteplici titoli. Racconta con molte licenze gli ultimi anni di vita, dal dicembre del 1889 all'estate del 1902, di Harry Tracy, celebre fuorilegge che pare avesse fatto parte del mucchio selvaggio di Butch Cassidy e che divenne famoso per le sue evasioni e le sue fughe attraverso il nord-ovest americano. Il Tracy originale non assomigliava per nulla a Bruce Dern e pare fosse un sanguinario bestione che nulla aveva a che vedere con la versione romantica di questa pellicola.



Il film infatti tenta di riproporre la formula che tredici anni prima aveva fatto la fortuna di "Butch Cassidy", con quel suo mix di commedia, romanticismo e squarci di violenza. Ma il pur grandissimo Bruce Dern non ha certo il fascino di Paul Newman o Robert Redford e i tempi erano irrimediabilmente cambiati. Se vogliamo, questa pellicola è un ulteriore esempio di come il genere avesse imboccato una strada revisionista che ne aveva irrimediabilmente spostato i confini etici ed estetici. Anche in questo caso abbiamo un west paradossalmente trasfigurato dal realismo dei costumi e delle scenografie, e un protagonista totalmente antieroico, non particolarmente simpatico né particolarmente intelligente, che significativamente fa la sua prima comparsa mentre fugge nella neve in mutandoni. Un comune delinquente, comunque migliore della grigia e deprimente società che lo circonda, perché capace di slanci anche non razionali, come quando insegue la donna di cui è innamorato dopo una rapina, finendo per farsi catturare.



La prima mezz'ora picaresca, con Tracy che fugge, trova in un pittore morto di fame un complice, e ricomincia a rapinare treni e banche, è carina, ma sa di già visto e non ha decisamente la verve e dialoghi di un "Butch Cassidy". Il film trova la sua personalità nella seconda parte, più drammatica e violenta, con la fuga attraverso montagne, boschi e campagne di Tracy con la sua donna, una raffinata borghese innamorata di lui. L'atteggiamento indolente, quasi distratto e infine rassegnato, con cui il protagonista fugge ai suoi sempre più numerosi inseguitori dona un tono quasi poetico alla romantica fuga. La bella fotografia autunnale e la classe degli attori fanno il resto. Anche il televisivo Graham, regista convenzionale e didascalico, trova lampi di ispirazione nel bellissimo finale, con la morte di Tracy assediato in un campo di grano da decine di scagnozzi e la desolata tristezza della compagna che si allontana da sola, mentre sciacalli e fotografi (sullo sfondo del film si descrive la nascita della cronaca nera) dispongono a loro piacimento del cadavere di Tracy.

Giulio Questi 1924 - 2014



E' morto ieri a Roma Giulio Questi.
Regista, scrittore, critico e irriducibile appassionato di cinema, 90 anni compiuti il 18 marzo scorso. Nella sua pur lunga carriera cinematografica e televisiva, come regista aveva firmato solo tre film, la satira pop La morte ha fatto l'uovo e il maledetto e grottesco Arcana. Ma era soprattutto noto per la sua violentissima opera d'esordio, il western Se sei vivo spara. Un titolo a cui questo blog deve ovviamente qualcosa.

martedì 2 dicembre 2014

El Gringo Barbarosa



1983 EL GRINGO BARBAROSA (Barbarosa) 
di Fred Schepisi con Willie Nelson, Gary Busey, Gilbert Roland, Danny De La Paz, George Voskovec, Isela Vega, Alma Martinez 

Bello e dimenticatissimo western picaresco e crepuscolare. Non solo uscito nel periodo più tetro per la fortuna commerciale del genere, ma come il coevo (e comunque diversissimo) Vecchia volpe, è una pellicola che in quel 1982 sembrava fare di tutto per risultare inattuale e fuori moda. Prima di tutto proseguendo (proprio nell'epoca di cavalieri Jedi e archeologi avventurieri) quel discorso di smitizzazione della retorica eroica iniziato nel decennio precedente, poi mettendo in scena un Messico insolito, poco folkloristico, fatto più di attendibili e scolorati costumi ottocenteschi piuttosto che di pittoreschi poncho e sombreri.



Fiaba messicana crudele e amorale, con due protagonisti che in alcuni momenti sembrano ricordare le figure di Don Chisciotte e Sancho Panza. Si raccontano le disavventure di un giovanottone americano che per sfuggire a una faida tra famiglie si rifugia in Messico, dove finisce per diventare lo scalcinato scudiero del leggendario bandito solitario Barbarosa, che in molti vorrebbero morto. Fuorilegge più per diletto e incapacità di accasarsi che per altro, Barbarosa è un simpatico cialtrone, aiutato tanto dalla fortuna quanto dall'alone di leggenda che lo circonda e che intimorisce i suoi avversari.

Il tono generale è leggero, quasi da commedia, ma la storia è punteggiata da dettagli macabri, scoppi di violenza insensata e casuale che lasciano il segno. Sia Barbarosa che chi gli da la caccia tentano di uccidersi a vicenda come se stessero partecipando ad un grande gioco, in cui odi antichi e faide sanguinose sembrano faccende da vecchi bambini cocciuti. Memorabile le patetiche figure dei due padri di famiglia americani che si fanno la guerra più per ottusa testardaggine assassina che vero odio. Ugualmente ambigua la figura del fazendero messicano (un grandissimo Gilbert Roland al suo ultimo film della sua lunghissima carriera ) che sacrifica uno ad uno i suoi uomini per avere la testa di Barbarosa, ma allo stesso tempo ne racconta le gesta ai bambini, mantenendo vivo un mito di cui è orgoglioso di far parte.



Sarà per la presenza di Gary Busey, diventato famoso pochi anni prima per il capolavoro "Un mercoledì da leoni", ma durante la visione vien spesso in mente il cinema John Milius. Scene come quella dei due protagonisti che ascoltano una canzone provenire da un villaggio che narra le loro gesta sono decisamente vicine a certe atmosfere di Milius. Magari più lo sceneggiatore che il regista, quello in particolare di "Corvo rosso non avrai il mio scalpo" e "L'uomo dai 7 capestri", dove si ritrova la stessa tematica del personaggio che diventa una leggenda vivente e quell'epica dolce amara su uomini che fanno guerra alla realtà tentando di essere più grandi della vita.
A "Barbarosa" manca alla fine forse un vero respiro epico e il finale ad un certo punto è un po' troppo prevedibile, ma comunque è un film che non sfigurerebbe troppo accanto ai migliori di Milius.

Risplende invece nella carriera dell'australiano Schepisi, qui al suo primo film americano, in seguito regista sporadicamente interessante ("6 gradi si separzione"), ma troppo discontinuo. Quattro anni prima aveva diretto il duro "The Chant of Jimmie Blacksmith", dramma aborigeno con più di un debito con il western americano più arrabbiato degli anni 70.



Perfetto il mito country Willie Nelson nella parte di Barbarosa. Il suo faccione austero, ma dall'espressione placida, incarna bene l'ambivalenza del suo personaggio, conscio di non essere quello che tutti credono, ma deciso ad interpretare la proria leggenda fino alle estreme conseguenze.
Anche Busey è perfetto, come una specie di gigantesco bambinone che si muove stordito in un mondo fatto di adulti molto più infantili di lui. L'attore s'impegna parecchio e tira fuori una delle sue interpretazioni più sensibili. Un vero peccato che qualche anno dopo, dopo essere rimasto sfigurato in un incidente, scoprirà Gesù e diventerà un insopportabile presenzialista della tv trash americana.
Nela piccola parte della moglie di Barbarosa la mai dimenticata Isela Vega di "Voglio la testa di Garcia".

lunedì 1 dicembre 2014

The Last Rites Of Ransom Pride



2010 THE LAST RITES OF RANSOM PRIDE
di Tiller Russell con Lizzy Caplan, Jon Foster, Cote de Pablo, Dwight Yoakam, Kris Kristofferson, Jason Priestley, W. Earl Brown, Scott Speedman, Peter Dinklage

Cosa ci può aspettare da un western esteticamente pienamente calato nel 21° secolo, con attori e costumi fashion, la fotografia monotonamente desaturata e un montaggio moderno ultra-schizzato e videoclipparo? Tutto il peggio possibile. Ma quello che all'apparenza sembra (e forse per la maggior parte delle persone è) un film sbagliato e irritante, a conti fatti è una delle poche perle da salvare nel mare di spazzatura dilettantesca che è diventato il cinema di genere a basso budget degli ultimi anni. "L'estrema unzione di Ransom Pride" (così la nostra traduzione letterale, non esiste una distribuzione italiana, anzi il film pare non sia stato distribuito da nessuna parte e anche in America sembra aver avuto pochissima circolazione) è un piccolo, affascinate circo di morte, un'operina che usa il linguaggio più patinato per mettere in scena un universo freak che non ha davvero nulla di patinato.



La storia è quella di una fuorilegge mezzosangue che nell'anno di grazia 1911 parte per il Messico alla ricerca del cadavere dell’amante - ostaggio di una bruja messicana - per dargli sepoltura in Texas nel luogo dove è nato, coinvolgendo il fratello di lui per usarlo come merce di scambio.
Qualcosa non torna negli spostamenti dei vari personaggi, con qualcuno che va avanti e indietro da un posto all'altro mentre altri ci mettono mezzo film per fare lo stesso viaggio, ma non ha molto senso chiedere troppa logica ad una storia che mette in scena un West al forte sapore di vudù e Santeria, dove i personaggi sembrano usciti da un film di Jodorowsky e i costumi sono ispirati alla saga di Mad Max per ammissione dello stesso regista, l’esordiente Tiller Russell (già attivo come documentarista), che ha anche dichiarato di essersi ispirato per lo stile ai fumetti, definendo il suo film una "graphic novel western".

Il tono del film è funereo e necrofilo, il ritmo lento e ipnotico, le atmosfere apocalittiche. Una sorta di Dead Man (senza raggiungerne la poesia) dall'estetica ribaltata. La visione del Far West è più o meno la stessa del film di Jarmush: una frontiera sordida e desolata attraversata da improvvise e immotivate esplosioni di violenza, dove il regista non si risparmia nel mettere in scena sangue, sesso, violenza e perversioni varie. Ma il risultato finale non è per nulla sensazionalista, visto che tutto sommato si racconta una storia triste e dal tono dimesso, senza troppe scene madri ridondanti e con sequenze di violenza veloci e brutali (un po' deludente in questo senso la resa dei conti finale da thrillerone qualsiasi).

La poetica freak che attraversa tutto la pellicola da vita ad alcuni bei personaggi, soprattutto tra quelli di contorno: il gigantesco motociclista nero che si becca un buco in pancia come Slim Pickens in "Pat Garrett e Billy the Kid", il nano taciturno interpretato dall'unico attore nano diventato ormai un divo, Peter Dinklage, i malinconici gemelli siamesi di cui uno morente, i due killer ricalcati (troppo) sul modello dei cacciatori di taglie di "Dead Man", l'inquietante servo indiano della bruja.



La protagonista Lizzy Caplan, con mantello rosso, cappello da ferroviere e canottiera sexi, è un personaggio tanto assurdo quanto assolutamente spettacolare. Molto più anonimo il protagonista maschile. E se è dura riconoscere la bella Cote de Pablo (nota per la serie tv NCIS) sotto il trucco sfigurante della bruja, impossibile accorgersi che sotto il trucco di uno dei killer c'è il divetto di "Beverly Hills 90210" Jason Priestley. In aggiunta ci sono due grandi icone del cinema western (e della musica country) come Dwight Yoakam, nel furente ruolo di un predicatore invasato, e soprattutto Kris Kristofferson, che fa una grande entrata in scena delle sue, una bottiglia di whisky in una mano e una ragazza mezza nuda sulle ginocchia.



Lo stile nevrotico della regia, con quei flash al limite del subliminale che interrompono continuamente la scorrevolezza della visione, fa venire in mente il nome di Tony Scott. Regista che negli ultimi anni, soprattutto in ambito di appassionati di cinema action, ha conosciuto una rivalutazione critica fin tanto esagerata. Pur avendo apprezzato e nel caso rivalutato alcuni film del regista, non ci iscriviamo tra i suoi fan, ma bisogna ammettere che, sulla distanza e (inutile nasconderlo) alla luce della sua tragica fine, il suo cinema rivela una specie di furore stilistico e un certo qual senso di frustrazione autoriale che rendono alcuni dei suoi film più interessanti di quello che sembravano all'uscita. Fatto sta che se c'è un film a cui si può accostare "The Last Rites Of Ransom Pride" è il suo delirante "Domino": un'altra pellicola ugualmente balorda, fuori registro, "sbagliata", ma anche o proprio per questo particolare, originale e a suo modo affascinante.

Produzione canadese, che nonostante la credibilissima ambientazione messicana, è stata girata nei dintorni di Calgary, nello stato dell’Alberta, in suggestivi scenari naturali. Gli stessi di altri western recenti come Gli spietati, L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford e Open range.