martedì 17 luglio 2012

le monografie 8 - Un uomo chiamato cavallo

1970 Un uomo chiamato cavallo (A Man Called Horse)
di Elliot Silverstein con Richard Harris, Judith Anderson, Jean Gascon, Manu Tupou, James Gammon

Agli inizi dell'ottocento, durante una battuta di caccia, John Morgan, un lord inglese, viene catturato e reso schiavo dalla tribù sioux di Mano Gialla. Verrà affidato come cavallo da soma alla vecchia madre del capo indiano, ma saprà conquistare la fiducia e il rispetto della tribù, arrivando a sposare la sorella di Mano Gialla. Assunto il nome di Shunka Wakan (L'uomo Chiamato Cavallo) arriverà a guidare la tribù contro i nemici Crow. Ma non ci sarà nessun lieto fine...


Del trittico di pellicole revisioniste che nel 1970 cambiarono per sempre l'immagine dei pellirosse americani nell'immaginario collettivo "Un uomo chiamato cavallo" è generalmente considerato oggi l'elemento debole, il meno memorabile e citato. Certamente non ha la profondità e la complessità di un capolavoro come Piccolo grande uomo e non possiede nemmeno la forza rudimentale ma dirompente di Soldato blu, ma rimane l'ottimo esempio di un cinema che sapeva fondere esigenze spettacolari, commercialmente vincenti, con la messa in discussione di qualche luogo comune. Un tipo di cinema adulto abbastanza impensabile al giorno d'oggi.


Il limite principale della pellicola di Silverstein è evidente: la morale di fondo è troppo compromessa con i cliché del più classico racconto avventuroso di stampo colonialista. C'è il protagonista bianco che si scontra con una cultura esotica, rimane affascinato da un tipo di vita opposto al suo e arriva a rispettare i buoni selvaggi, ma che finisce anche “inevitabilmente” per primeggiare, divenendo il capotribù per manifesta superiorità intellettiva e morale. Se da una parte il ribaltamento che vede per una volta il bianco schiavizzato e trattato (letteralmente) come un animale funziona a livello metaforico, dall'altra non può non irritare almeno un po' che sia un lord inglese a predicare di uguaglianza tra tutti gli uomini.

Detto del suo difetto maggiore, restano i molti pregi di un film comunque ancora di forte impatto poetico ed emotivo. Anche se mette in scena i soliti attori bianchi truccati da indiani, dei tre film del 1970 è il più attento e curato, dal punto di vista etnologico, nel mettere in scena la vita degli indiani d'America, e l'unico in cui non è immediato il parallelo tra le guerre indiane e avvenimenti legati all'attualità dell'epoca, quali la guerra del Vietnam e la contestazione. La cultura indiana è messa in scena con la giusta miscela di ironia e crudezza, e probabilmente il fatto che il punto di vista del film resti sempre quello esterno del protagonista (che ad esempio per quasi tutto il film ha bisogno delle traduzioni di un meticcio mezzo francese per parlare con gli indiani) evita la pretesa di un cinema fatto da bianchi che vuole raccontare il punto di vista dei pellirosse.


Se anche convenzionale da un punto di vista narrativo, non mancavano elementi destabilizzanti per le platee di allora, a cominciare dal non trascurabile dato visivo che per buona parte del film il protagonista è completamente nudo o seminudo. Ragguardevole anche la dose di crudezze e violenze che si susseguono per tutto la durata del film, pur lontano dalle efferatezze di "Soldato blu" e dalla durezza satirica di "Piccolo grande uomo". Lo sviluppo degli eventi è decisamente funereo, con praticamente tutti i personaggi principali che muoiono attorno al protagonista. Anche l'apparente ovvietà della sotto trama sentimentale viene troncata in modo brusco e crudele. Un altro grosso merito del film è non nascondere i lati inquietanti e crudeli della civiltà dei nativi americani, come la consuetudine di abbandonare a se stesse le donne anziane rimaste senza figli (il che da vita ad alcune delle sequenze più toccanti del film) e nel mostrare i massacri reciproci tra tribù.

Ma soprattutto il film passa alla storia per la celebre sequenza della Danza del Sole, in cui Harris viene appeso a delle funi infilate sotto la pelle del petto. In effetti, anche se la carica "splatter" della sequenza con gli anni si è inevitabilmente del tutto smorzata, resta un gran pezzo di cinema, con l'atmosfera allucinata nella tenda della cerimonia e l'inserimento di visioni psichedeliche inedite nel western (perlomeno americano).


Quel che più si apprezza oggi di un film come "Un uomo chiamato cavallo", e che fa provare una certa nostalgia per il cinema di quegli anni, è lo stile con cui è girato, tra scelte sapientemente classiche (il ritmo disteso, la colonna sonora) e altre sottilmente innovative (il montaggio brusco e sincopato, gli attori non certo abbelliti dal trucco). Da evidenziare il lavoro del direttore della magnifica fotografia Robert Hauser, che è lo stesso di "Soldato blu", il che dona ad entrambi i film un'atmosfera satura e fosca di grande impatto. In questo in particolare riesce a ritrarre degli splendidi paesaggi senza scadere in banalità bucoliche, ma anzi trasmettendo un bel senso di natura selvaggia. Bellissime in particolari le atmosfere invernali e tutte le immagini sullo scorrere delle stagioni.

Per l'irlandese Richard Harris fu il ruolo della vita, il personaggio con cui tutti lo identificheranno nonostante il gran numero di titoli anche molto noti che aveva già girato e girerà in seguito. Dopo questo film apparirà in altri western atipici e poco tradizionali: "Uomo bianco và col tuo Dio", "La rossa ombra di Riata", "Gli spietati" e "Silent Tongue".

1976 La vendetta dell'uomo chiamato cavallo (The Return of a Man Called Horse)
di Irvin Kershner con Richard Harris, Gale Sondergaard, Bill Lucking, Geoffrey Lewis

Tornato a vivere in Inghilterra Lord Morgan si annoia tra cacce alle volpi e concerti di musica da camera. Mollato castello e fidanzata prima dei titoli di testa, torna quindi dai mai dimenticati amici indiani, scoprendo però che nel frattempo la tribù è stata decimata e scacciata dalle loro terre da dei cattivissimi trapper asserragliati in un forte. Ritrovati e riuniti i superstiti li guiderà alla riscossa assumendo per sempre l'identità di Shunka Wakan.


Scomparso nel 2010, Irvin Kershner è stato un regista dalla carriera curiosa. A cavallo dei 60 e 70 si fa notare con un paio di notevoli pellicole tra free cinema inglese e New Hollywood americana, "Una splendida canaglia" con Sean Connery e "Loving" con George Segal, poi si specializza come regista di sequel e prodotti seriali, tra cui questo, "Mai dire mai", "Robocop 2" e il film per cui passerà alla storia "L'impero colpisce ancora". Nel caso de "La vendetta dell'uomo chiamato cavallo" mette la sua indubbia professionalità al servizio di un sequel che a livello narrativo non è altro che una specie di lungo epilogo di quanto raccontato nel film originale. Ne esce un prodotto sostanzialmente superfluo, ma di notevole impatto spettacolare, forse dalla confezione fin troppo raffinata, visto che in fin dei conti è un tipico revenge movie degli anni 70 (per cui molto lento per i gusti odierni).


Archiviati infatti gli scrupoli antropologici e le ambizioni poetiche del film del 1970, il secondo capitolo della saga (prodotto da Richard Harris) si presenta come un efficace film d'avventura, all'insegna dell'azione violenta, interamente basato sul sempre efficace meccanismo della punizione finale di un sopruso iniziale. Gli autori sono furbi e cinici nel caricare la prima parte di sequenze crude e violente contro degli innocenti, per poi arrivare nel finale alla sospirata distruzione del forte e al massacro dei trapper. Grazie al talento di Kershner la storia non si riduce ad un rozzo meccanismo di causa ed effetto, ma riesce in parte a conservare il senso di una violenza congenita all'uomo, i cui effetti lasciano sempre un senso di amarezza e non sono mai controllabili, per cui ad esempio anche la vittoria finale giunge a caro prezzo e senza facili sensazionalismi.


Visto che di "Un uomo chiamato cavallo" tutti ricordano quasi solo la cruda sequenza della Danza del Sole, in questo sequel gli autori dedicano l'intera parte centrale del film alla riproposta dello stesso rito. Se nel film precedente la sequenza in tutto durerà dieci minuti, qui si viaggia sulla mezz'ora e stavolta oltre al protagonista sono tutti i maschi superstiti della tribù a sottoporsi al sacrificio. La ripetizione della stesso rito, con la reiterazione degli stessi effetti sanguinolenti e il moltiplicarsi dei partecipanti rischia il ridicolo involontario e lo svuotamento di senso, ma anche qui a fare la differenza è la solidità della regia, che intelligentemente rinuncia agli effetti “psichedelici” del film precedente e si mantiene su un piano di cruda spettacolarizzazione di un cerimoniale di purificazione collettivo, con qualche concessione all'horror e all'allora nascente moda new age.

1983 Shunka Wakan - Il trionfo dell'uomo chiamato cavallo (Triumphs of a Man Called Horse)
Un film di John Hough. Con Michael Beck, Ana De Sade, Richard Harris, Anne Seymour

Trenta anni dopo gli avvenimenti del film precedente, Lord Morgan/Shunka Wakan è ancora a capo della sua tribù. Ma le terre dei Sioux sono invase dai cercatori d'oro e i fomentatori tramano nell'ombra.

Già il primo sequel arrivato dopo sei anni dall'originale sembrava un film nato fuori tempo massimo, figuriamoci questo terzo capitolo arrivato dopo altri sette anni, nel 1983, periodo di vacche magrissime per il cinema western. Infatti dopo le due grosse produzioni precedenti stavolta va in scena una misera produzione di serie F, girata visibilmente alla meno peggio e al totale risparmio. A cominciare dalla presenza di un troppo costoso Richard Harris, che compare in tre scene contate, recita con aria spiritata un paio di scocciatissimi monologhi e poi si fa ammazzare. Considerata la fine un po' scarsa del personaggio (un cecchino gli spara alla spalle e buonanotte) il "trionfo" annunciato del titolo è francamente ridicolo.


Il protagonista vero è il personaggio interpretato da Michael Beck, cioè Koda, figlio mezzosangue di Shunka Wakan. Già protagonista tre anni prima de "I guerrieri della notte", Beck non sarebbe neanche male e fisicamente è pure credibile come figlio di Richard Harris (meno come meticcio), peccato sia alle prese con un personaggio ridicolo, che all'inizio si presenta come biondo pistolero da spaghetti western e in men che non si dica si mette a capo della tribù del padre. Ad un certo punto si trasforma pure in una specie di raddrizzatorti solitario, con al suo fianco una specie di fotomodella col costume di carnevale da squaw. I due intrepidi se ne vanno in giro ad ammazzare fomentatori e a sloggiare i cercatori d'oro a suon di dinamite.

Facile a questo punto intuire che il film non vorrebbe essere altro che un filmetto d'azione in puro stile anni 80 (raro vedere tante esplosioni in un western), ma la confezione è troppo modesta anche solo per essere passabilmente divertente. La violenza e le crudezze dei due capitoli precedenti sono quasi del tutto annullate dalla piattezza para-televisiva, la trama sembra quella del più ingenuo kraut western degli anni 60, con tanto di killer che agisce nell'ombra - la cui identità risulta ovvia fin da subito anche allo spettatore più distratto. Decisamente assurdo il lieto fine con gli indiani che scacciano gli invasori bianchi.


A peggiorare ulteriormente l'aria trasandata dell'insieme ci sono gli elementi ripresi di peso dai film precedenti. Dal primo film vengono riprese le sequenze visionarie, che però rimontate in un contesto tanto mesto fanno l'effetto di cianfrusaglia onirica, mentre dal secondo è ripresa l'epica colonna sonora di Laurence Rosenthal, la cui sontuosità stride con un film tanto dimesso (tutto sommato più coerente con la materia filmica la patinata canzoncina pop “He's Comin' Back” cantata da Rita Coolidge sui titoli di testa). Si salva giusto qualche scena d'azione, girata per altro non dall'anonimo John Hough, ma dalla seconda unità diretta da Terry Leonard, ancora oggi uno dei più esperti stuntman di Hollywood; c'è lui dietro le scene d'azione di "Grindhouse - A prova di morte” di Tarantino e “Inception” di Nolan.

4 commenti:

  1. Bella monografia. Purtroppo ho visto solo il primo film della trilogia, per di più qualche secolo fa.

    Uno dei principali punti di forza del film secondo me era Richard Harris, che nonostante l'origine irlandese come attore western, e in generale di film d'avventura, è sempre stato molto efficace, a partire da "Sierra Charriba" di Peckinpah.

    Riguardo alla "danza del sole" ne ricordo una spassosissima versione a fumetti nello speciale di Zagor "Un pellerossa chiamato Cico"...

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  2. In effetti all'inizio pensavo di dedicare la monografia ad Harris, ma "La rossa ombra di Riata" sembra introvabile. O almeno lo era fino a qualche tempo fa quando l'ho cercato.

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  3. Io "La rossa ombra di Riata" ce l'ho! Date un'occhiata alla mail.

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  4. Le osservazioni fatte sulla trilogia di "Un uomo chiamato cavallo" sono tutte pertinenti e approfondite. Di certo la forza del primo film viene dalla sua aderenza -almeno nello svolgimento generale della vicenda - alla novel letteraria che ne è la fonte: l'omonimo racconto breve di Dorothy M. Johnson grande narratrice di storie western degli anni '50. Qui non c'è la retorica che giustamente sottolinei nella pellicola, del bianco che, pur acclimatandosi agli usi e costumi dei nativi, finisce per prevalere su di essi, insegnandogli anche le tecniche belliche occidentali. Nello stile della Johnson emerge casomai il crudo realismo della vicenda e il disincanto per l'incontro scontro di due mondi culturali estranei e in collisione forzata. Anzi l'atto conclusivo dell'ex-prigioniero di accogliere come madre la sua carceriera rimasta sola, proclamandosi suo figlio depone per la sua totale adesione alla cultura dei nativi, come ricerca conclusiva di uguaglianza tra gli uomini.

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