mercoledì 18 gennaio 2012

i registi 5 - Robert Altman

ROBERT ALTMAN E IL WESTERN
Ovvero la lezione di cinema di un inguaribile anticonformista



« E poi perché mai il cinema deve essere considerato un’industria? Se il cinema morirà sarà proprio perché era arte, era cultura, e l’hanno cacciato a forza tra i “profitti e perdite.” »

Nonostante abbia mosso i suoi primi passi come regista dirigendo alcuni episodi di famose serie televisive come Bonanza probabilmente Robert Altman non è mai stato particolarmente interessato al western. Per lui il genere non era altro che un mezzo con cui disinnescare i consolidati e paludati miti e modelli hollywoodiani, con lo stesso procedimento adottato per il noir (Il lungo addio), il gangster-movie (Gang), il film di guerra (M.A.S.H.) e di fantascienza (Quintet). Essendo anzi il genere cinematografico americano per eccellenza il western gli dava la possibilità di esprimere con maggior forza e sarcasmo i suoi intenti dissacranti e smitizzanti. Ciò non toglie che con soli due titoli al suo attivo il regista abbia saputo ritagliarsi un posto importante, se non fondamentale, nella storiografia del genere e che i suoi due film siano a loro volta divenuti, soprattutto il primo, dei punti di riferimento obbligati per chi in seguito abbia voluto confrontarsi, in chiave realistica e anti-epica, con il filone. I due film in questione sono ovviamente I compari e Buffalo Bill e gli indiani.

1971 I COMPARI (McCabe & Mrs. Miller) di Robert Altman, con Warren Beatty, Julie Christie, Shelley Duvall, William Devane, Keith Carradine, Michael Murphy, Corey Fischer

Forse il miglior film in assoluto di Altman, che nel suo percorso di rilettura dei generi hollywoodiani si cimenta con il western, destrutturandolo dalle fondamenta ma realizzando anche uno degli indiscutibili capolavori del genere. 
Per prima cosa viene stravolta l’ambientazione, spostata, con un’operazione non dissimile da quella compiuta per il western italiano da Sergio Corbucci con Il grande silenzio, dai deserti e dalle praterie assolate a una frontiera gelida, innevata e fangosa, con un surplus di desolazione e sporcizia (e Altman è tra i primi a porre l’accento sul fatto che nel West sapone e rasoio erano ben poco usati) e la mirabile e minuziosa ricostruzione dell’insediamento minerario di Presbyterian Church, basata su una rigorosa documentazione fotografica degli inizi del secolo scorso, con il saloon più lurido mai visto in western e le tende delle puttane in mezzo al fango.
Poi viene spogliata l’aura mitica, con la figura dell’“eroe”, non più così centrale, mutata in quella di un piccolo magnaccia dalle motivazioni incerte e casuali, un “piccolo imprenditore” che invece che coraggioso pioniere di un Far West inteso come terra di conquista e simbolo di progresso è malaugurata vittima di un capitalismo spietato che divora i più deboli.
Infine vengono disinnescati i luoghi comuni, gli elementi coreografici e i momenti topici, come ben evidenzia il duello finale costruito contro tutta la decennale grammatica del genere: niente confronti faccia a faccia o sfide in velocità, ma uccisioni rigorosamente alle spalle, con gli antagonisti impauriti e che cercano solo di salvare la pelle.
Il commento musicale anziché a ritmi enfatici, marziali o tambureggianti viene affidato alle spoglie e indimenticabili ballate di Leonard Cohen, che trasmettono tutta la tristezza, la malinconia e la disperazione degli improvvisati “eroi” altmaniani, interpretati magnificamente da Warren Beatty e Julie Christie, che aleggia costantemente per tutta la pellicola.
La regia di Altman è antispettacolare, quasi improvvisata nel cogliere protagonisti e non protagonisti in momenti della loro quotidianità, raffinata negli zoom che scrutano i volti dei personaggi, con una bellissima fotografia dalle tonalità ocra e pastello di Vilmos Zsigmond.
Un film che poteva essere pensato e diretto solo nella New Hollywood degli anni settanta, quando sembrava che le esigenze espressive e le istanze artistiche degli autori potessero avere la meglio su quelle commerciali dei produttori. Un breve periodo d’oro durato solo pochi anni, poi alla fine del decennio il trionfo clamoroso di Guerre stellari darà il via al nuovo cinema fracassone e il disastro commerciale de I cancelli del cielo riporterà il final cut in mano ai manager degli studios, togliendolo per sempre da quelle degli autori.

1976 BUFFALO BILL E GLI INDIANI, OVVERO LA LEZIONE DI STORIA DI TORO SEDUTO (Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull's History Lesson) di Robert Altman, con Paul Newman, Burt Lancaster, Geraldine Chaplin, Joel Grey, Harvey Keitel, Kevin McCarthy, Will Sampson

Secondo e ultimo western di Altman, rispetto al già demitizzante I compari del tutto allegorico e satirico, con cui completa il suo discorso di decostruzione (e distruzione) del genere, disinnescandone i miti che ne stanno alla base. Tra i suoi film migliori, con dei dialoghi assolutamente strepitosi.
Nell’anno del bicentenario degli USA, la “celebrazione” di Altman è all’insegna della più sferzante ironia: il film è ambientato interamente nel famoso circo di Buffalo Bill, elevato a velenosa metafora del teatrino mediatico degli Stati Uniti d’America e dello show business che inventa false icone grondanti retorica patriottarda e razzista sulle ceneri di un genocidio, ad uso e consumo di un pubblico ottuso che secondo il regista è il vero colpevole (“è sua la responsabilità di ciò che accade all’intorno. La sua eventuale inerzia merita la più severa condanna”).
Da applausi l’interpretazione di Newman, in un’inedita e cialtronesca raffigurazione di William F. Cody. Ma è ottimo anche tutto il resto del cast: Geraldine Chaplin è una deliziosa Annie Oakley, Burt Lancaster il “creatore di miti” Ned Buntline e, in un ruolo minore, c’è anche un giovanissimo Harvey Keitel.
La regia di Altman tecnicamente è stata spesso sottovalutata: l’uso massiccio del teleobiettivo, la quasi assenza di primi piani e campi-controcampi, la recitazione degli attori con ampio spazio all’improvvisazione, il suono in presa diretta e l’overlapping (più personaggi che parlano contemporaneamente) contribuiscono a una messa in scena sicuramente antiaccademica, quasi più teatrale che cinematografica, ma tremendamente efficace. 
Il produttore Dino de Laurentiis, scomparso di recente e ovunque celebrato come un grande mecenate del cinema, mutilò addirittura mezzora di film, cosa che mandò a monte il successivo progetto che lui e Altman dovevano realizzare insieme, Ragtime, passato poi nelle mani del più tranquillizzante e “integrato” Milos Forman.
Nonostante il film sia poco considerato (su alcuni famosi dizionari di cinema viene giudicato addirittura “datato”) e l’intento metaforico di Altman magari anche fin troppo scoperto, il suo rigore e la sua lucidità tra i registi contemporanei non li possiede più nessuno: “A cosa servono i miti? A celare, giustificare, a fornire verità ufficiali. Muovendosi verso ovest, cavalcando i propri interessi, i pionieri avevano un solo obiettivo: far fuori gli occupanti di quelle terre. Tuttavia alle loro famiglie cosa raccontavano? Assalti, massacri, tradimenti? No, l'onore andava salvaguardato. Gli assalti, i massacri e i tradimenti andavano subiti, non compiuti... In altre parole, Buffalo Bill è uno che sa sparare e stare in sella come tutti, dati i tempi. E quando lo scritturano in un circo e diventa attore... Eh, bè, è così bello, così biondo, così "americano" che costruirgli addosso il mito diventa facile. Buffalo Bill è la prima star del sistema: da un lato la sua perfezione, dall'altro la rappresentazione degli indiani stupratori, alcolizzati, scotennatori.” (Robert Altman)
Mauro Mihich

2 commenti:

  1. Essendo "I COMPARI" forse - forse - forse il mio western preferito, copio e incollo un po' di cose scritte qui e là sui forum:

    "[...]uno dei miei western preferiti, di sicuro tra i primi cinque di un mia ipotetica classifica. Soprattutto per quel finale... uno dei più belli e tristi della storia del cinema.
    Non so se è il capolavoro assoluto di Altman, per me se la gioca con "Il lungo addio" e "Nashville", ma di sicuro tra le vette della New Hollywood.
    Lo stravolgimento ambientale è ottenuto anche attraverso la rinuncia alla tipica orizzontalità del western, con personaggi, diligenze e cavalli che devono faticare per i pendii del paesello abbarbicato sul fianco di una montagna. Curiosa soluzione narrativa per il genere, anticipata, pure questa, da Corbucci ne "Gli specialisti", che ho visto l’altro giorno. Film che sono convintissimo Altman non avesse mai sentito neanche nominare, ma è significativo dell’aria comune che si respirava in quei tempi in tutto il mondo del cinema."

    Questo lo scrissi quando morì Altman:

    "I compari è uno dei più impietosi, realistici, disperati, tristi e poetici western di tutta la storia del cinema. Personaggi indimenticabili, una delle rese dei conti finali più belle della storia della cinema, una colonna sonora da brividi con tre canzoni di Leonard Cohen, ma soprattutto l'impressionante fotografia dell'operatore Vilmos Zsigmond che ci restituisce i colori autunnali e le luci invernali di un West come mai si era visto.

    Rivedendolo l'altra sera, sono rimasto ancora una volta colpito da una brevissima sequenza all'inizio: la scena un po' misteriosa in cui una delle prime prostitute dice a Warren Beatty con aria infantile "devo andare al bagno" e a quel punto c'è una rapida zoomata sul viso di Warren Beatty che improvvisamente appare disperato.
    E' una piccola crepa nel film e nel personaggio che ha ogni volta il potere di intristirmi e quasi commuovermi.

    Non vorrei esagerare, ma credo che I COMPARI sia uno dei film più profondi e dolorosi che abbia mai visto sull'assenza e il silenzio di Dio (si veda cosa trova Warren Beatty nella chiesa) e sul non senso della vita."

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  2. Credo che la riflessione sull'assenza di Dio fosse precisamente voluta da Altman e il finale con la chiesa che brucia ne è la più chiara delle metafore.

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